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Egregio, esimio, eccellentissimo e compagnia bella

Che in Italia sia rimasto un retaggio borbonico duro a morire nel rivolgerci ai potenti è cosa risaputa. Ci si appella alle autorità, civili o religiose, con i titoli più disparati ma sempre incensatori e magniloquenti.
Al vescovo come al prefetto spetta l’eccellenza, ai cardinali l’eminenza, al Papa cattolico sua santità, ma se è ortodosso sua beatitudine e, un tempo, ai dogi veneziani della Serenissima non poteva spettare altro che il “sua serenità”. Nel testo scritto si passa addirittura al superlativo, con l’aggiunta di altri numerosi nobili titoli identificativi, anche due o tre in un colpo solo: eccellentissimo signor, dottor, professor, Eminenza reverendissima, pregiatissimo, chiarissimo, esimio, illustre, insigne, distinto, spettabile, quando addirittura non si arriva al vossignoria illustrissima di manzoniana memoria.
Ah! L’italica burocrazia che nelle sue scartoffie parla un “burocratese” incomprensibile ai più e si serve di inutili espressioni ampollose per aumentare le distanze con noi, poveri sudditi!

A Napoli, è risaputo, basta essere seduti dietro a uno sportello a mescolar carte oppure avere in testa un berretto con visiera per essere chiamati “dotto’. In alcuni quartieri abbonda ancora perfino il “don”, come don Pasquale, don Vincenzo, in verità di uso più ecclesiastico che laico, ed è una abbreviazione che sta per “dominus”, signore, tant’è che i monaci Benedettini lo usano ancora nella forma del “dom”. All’università il rettore è sempre magnifico e in parlamento tutti sono onorevoli, anche chi palesemente ha rubato o continua a farlo: un onorevole ladro, insomma.
La lettera poi, specie quella commerciale, è sempre indirizzata alla “cortese” attenzione e termina con la firma dello scrivente preceduta da un devotissimo e fedelissimo servitor suo, con i più cordialissimi e distinti ossequi. D’altronde è arcinoto che la stessa espressione di saluto “ciao”, ormai universalmente usata anche dagli stranieri, è nata in Italia e altro non è se non la storpiatura di schiavo suo…s-ciavo… ciao!
Parlavo all’inizio di retaggio borbonico duro a morire, ma negli altri Paesi com’è?
In una lettera francese basta scrivere un semplice Monsieur/Madame davanti al nome della persona cui ci si rivolge e metterlo al plurale Messieurs, quando si tratta di una Ditta e tutto finisce lì. In America, come in Inghilterra e nei Paesi Anglosassoni, l’indirizzo sulla busta è sempre molto stringato, del tipo Mr. al maschile o Ms. per il femminile, mentre il foglio all’interno della lettera inizia con un semplice Dear Sir/Madam.
Ma sapete quando da noi viene il bello? Quando si scrive al direttore di qualche azienda o di qualche ufficio per un favore qualsiasi o per una assunzione di lavoro. Allora gli aggettivi altisonanti si sprecano a iosa, a cominciare da un gentilissimo/chiarissimo direttore fino ad arrivare all’incomparabile EGREGIO. E perché dico incomparabile? Perché è proprio su questo aggettivo che volevo mettervi in guardia.

Infatti, come abbiamo già visto in  altre occasioni, gran parte del nostro vocabolario deriva dal latino e anche la parola “egregio” non fa eccezione, viene proprio da lì. Provate a scriverlo con un semplice trattino: e-gregio e il gioco è fatto. Significa ex-grege, colui che emerge dal gregge, il capo che sopravanza tutte le pecore. E chi è questo capo per antonomasia se non il caprone di cui il pastore va fiero e che con le sue belle corna difende gelosamente il suo harem?  Attenti dunque all’uso delle parole quando ci si rivolge a qualcuno con questo termine, (specialmente ora che lo sa) potrebbe anche offendersi, e ne avrebbe  tutto il diritto. Suvvia! Non vorrete mica incominciare una lettera con un “cavaron signor direttore”…!

 

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