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Il tesoro nascosto dee croste del caliero

Parona che gira la polenta

Dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un momento nel quale il Veneto e l’Italia tutta è rinata. Dopo la guerra, le fatiche, la fame , le epidemie del dopoguerra la gente aveva voglia di vivere, di farsi una casa, una famiglia, inventarsi un lavoro se non lo trovava. Ma il ricordo della guerra e delle privazioni non passava tanto facilmente. Lo vedevi quando la famiglia , la nostra famiglia tradizionale si metteva a tavola. La mamma e le altre donne di casa avevano preparato il pranzo ma era il padre che lo distribuiva nei vari piatti. Ed i padri di una volta non volevano questioni tipo è caldo, è freddo, ne voglio di più ne voglio di meno ecc. E si mangiava tutto…… era un delitto buttare via il pane , la minestra o altro. In ogni caso poi non si buttava nulla perché il pane vecchio si biscottava o lo si grattugiava e lo si usava di nuovo in cucina. Le bucce poi si davano alle galline, quel che non mangiavano le galline lo mangiava il porseo. Insomma non si buttava via nulla.

Io non ho visto la guerra ma il dopoguerra con le sue abitudini si. C’era un momento nel quale la famiglia tutta era riunita a tavola o attorno al focolare: era prima del pranzo o prima della cena ed era il momento della polenta. La sorella maggiore preparava la caliera o il caliero di rame . In certe famiglie si usava il maschile in altre il femminile chissà perché . Se la famiglia era benestante la caliera era sana altrimenti era stagnà ossia aveva subito una riparazione ad opera dei stragnari ossia quei mestieranti girovaghi, in genere zingari, che passavano di casa in casa a stagnare ossia riparare i paioli, le pentole di rame e la fondamentale caliera senza la quale non c’era la polenta.

Il rito della della polenta cominciava col “criveare ea farina”. Si prendeva allora la sacheta dea farina con la quale si andava al mulino e si setacciava la farina sulla tavola usando il crivello da farina dea poenta. C’erano in famiglia vari crivelli ma quello della polenta era il più fine, il più bello, il più pulito. Il compito di setacciare la farina era in genere della sorella maggiore o della sposetta ultima la quale si faceva aiutare anche dalle ragazzine più piccole.

La sorella maggiore o la sposa più giovane prendeva allora la caliera, la riempiva d’acqua e la metteva sul fuoco. Poteva essere il focolare con le braci sotto oppure nelle famiglie più evolute la cucina economica. Nel focolare si appendeva il manico della caliera ad un gancio della catena che penzolava dal camino. Nella cucina economica si toglievano invece i serci ossia i coperchi fatti a cerchio che chiudevano il piano di cottura della cucina economica in modo che il fondo della caliera venisse a contatto con il fuoco vivo della legna che alimentava la cucina e che poi si irradiava verso il forno, verso il tubo detto canon dea stua e quindi verso il contenitore dell’acqua posto a lato del forno o verso l’alto ossia verso il piano in ferro ove si poggiavano le pentole per cucinare. Erano operazioni in ogni caso delicate da fare con esperienza perché era facile scottarsi. Sul focolare c’erano le fiamme e le braci, nella cucina economica i serci erano roventi e le fiamme erano sempre un pericolo. Si doveva usare un ferrro detto fero dea stua che poi veniva appeso al bastone esterno che correva lungo i bordi della stufa e che fungeva in qualche modo da protezione.

Messo il caliero sul fuoco bisognava attivare, ma non troppo, il fuoco per far sì che l’acqua bollisse. Appena l’acqua bolliva allora i ragazzi, le ragazzine più piccole che seguivano le operazioni da una certa distanza andavano a chiamare la parona ossia la madre o la donna più anziana di casa. Arrivava la parona in genere molto severa che con fare autorevole come il primario dell’equipe chirurgica si metteva davanti al fuoco e chiedeva subito : el sae grosso. La ragazza o la sposetta che aveva messo l’acqua le passava allora il barattolo del sale grosso. L’anziana prendeva allora una piccola manciata di sale ne studiava la quantità giusta e poi lo gettava nella pentola. Aspettava qualche secondo e poi sentenziava: Beh vedemo sel va ben sae . Prendeva allora un mestolo, soffiava per raffreddare e assaggiava l’acqua appena salata Se diceva che andava bene nessuno poteva contraddirla se aveva dei dubbi allora assaggiava anche la sposetta la quale spesso temeva di dire la sua opinione: ci vuole un po’ più di sale o ce ne vuole meno. La suocera diciamo democratica ascoltava il parere della più giovane e poi decideva : Va ben cussì !.

A quel punto la vecchia cominciava a versare la farina di granoturco che però nessuno nel Veneto chiamava così la farina era solo e soltanto de formenton. Per noi padovani e per i veneziani da sempre siori la farina era rigorosamente bianca fatta col bianco perla per gli altri era gialla. Ed anche nella finezza della macinazione si vedevano le distinzioni sociali. In pianura , nei paesi dell’abbondanza la farina era finissima come il borotalco, in montagna e dove l’agricoltura era scarsa la farina era grossolana con residui del germe del granoturco e quindi la cottura doveva essere più lunga e la polenta era più dura e tutta grumi.

Ogni parona aveva la sua tecnica per versare la farina nel paiolo. C’era chi la versava a pioggia lenta facendola uscire dalla mano chiusa a pugno , c’era chi la versava a ventaglio sempre però con una mano perché con l’altra impugnava la mescola ossia l’attrezzo che serviva a mescolare la farina perché non si attaccasse al paiolo e non facesse grumi fin dal momento del versamento . Il versamento della farina doveva essere molto lento ed avveduto perché altrimenti si formavano i grumi e la polenta si cucinava male ed il sapore finale risultava quindi cattivo. Versando la farina, la polenta diventava sempre più difficile da mescolare perché aumentava la densità e allora si rallentava il ritmo, si smetteva di versare la farina e si usavano entrambe le mani per mescolare.

La quantità di farina da versare nel paiolo dipendeva molto dai gusti della parona. C’erano famiglie ove la polenta doveva essere assolutamente dura altre tenera. Alla fine della cottura la polenta si versava sul tavoliero e la polenta doveva formare un solo blocco. Altre famiglie invece preferivano la polenta morbida. Si versava la polenta sul tavoliero e la polenta camminava come la lava incandescente fino al bordo del tavoliero e poi come per magia si fermava.

Una cosa era però certa quando la parona o come la chiamavano sottovoce in altre famiglie la vecia diceva basta, si smetteva di versare la farina e si cominciava a mescolare .

A questo punto in genere la parona si allontanava e lasciava la faticosa opera del mescolamento alla nuora, alla zia non sposata, alle altre donne di casa. Il mescolamento si faceva lento con attenzione a non bruciare la polenta, facendo attenzione perché gli spruzzi della bollitura ti arrivavano sulle mani sul viso e bruciavano. Di tanto in tanto allora si prendeva il caliero col ciapin e si dava una rigirata più vigorosa. La cottura era in ogni caso lunga, noiosa ed incerta nella durata. Allora di tanto in tanto l’incaricata si fermava assaggiava il composto per vedere se la polenta fosse cotta e qualche ragazzo impaziente vedendo la scena spesso chiedeva: “ Sea bona “? “Eh come ea poenta crua “. Era spesso la risposta.

Per portare a termine la cottura spesso bisognava aumentare il fuoco. Allora l’incaricata chiamava questa volta i maschietti di casa e diceva loro andate “sul fassinaro” a prendermi le legne o andate in barchessa a prendermi la legna perché qua el fogo more. I maschietti allora di corsa andavano a prendere la legna ed arrivavano con un cesto di vimini con legna più fine e più grossa a seconda delle esigenze.

Quando, dopo circa un’ora, la polenta sembrava cotta si chiamava di nuovo la parona per prendere l’importantissima decisione di terminare la cottura e “roversare la poenta” . Di nuovo le ragazzine andavano a chiamare la nonna arrivava allora sbuffando la vecchia la quale impugnava la mescola la toglieva dal caliero allungava un dito sulla parte alta del legno, prendeva un po’ di polenta lo metteva in bocca e sentenziava. Se diceva bene allora si preparava il “tavoliero” per versarvi la polenta, se diceva ancora un bojo allora si aspettava ancora un po’ e l’addetta continuava a mescolare il composto che diventava sempre più duro.

Finalmente arrivava il gran momento. La polenta era cotta. Le ragazzine allora preparavano il tavoliero con lo spago o il filo sul manico per tagliare la polenta . I ragazzi si disponevano attorno alla tavola e l’incaricata chiamava in aiuto “i omeni” ossia i giovani uomini della famiglia perché staccare il caliero dal gancio o toglierlo dai serci della cucina economica era attività faticosa e pericolosa. Pensate che certe famiglie numerose come i Penghi, i Sciavoini quando li ho visti io avevano caliere da 10 ed anche 15 litri d’acqua. In uno o in due si prendeva allora il caliero per il manico si mandavano via i ragazzini dalle vicinanze e si versava la polenta ormai cotta sul tavoliero.

I ragazzi allora facevano Oh ! Oh !. Il miracolo di nuovo si era rinnovato.

A questo punto entrava in scena il pare che stendeva la polenta sul tavoliero de legno con un apposito attrezzo fatto come un fraton ed evitava che la polenta uscisse dal tavoliero e alla fine con lo stesso attrezzo faceva la croce sopra la polenta in segno di ringraziamento per il cibo avuto. Aspettava un attimo che la polenta bollente divenisse un po’ più dura ed a questo punto prendeva il filo o lo spago legato al manico del tavoliero e cominciava a fare le fette di polenta con movimento lento dal basso verso l’alto . Il filo tagliava benissimo e se le fette erano troppo grandi faceva anche un ulteriore taglio centrale.

Non c’era nel nostro Comune e nel Veneto famiglia di una certa entità che in tempo di guerra ed anche nel primo dopoguerra non ripetesse una o due volte al giorno questo rito della polenta. Pensate che in certe zone del Veneto e quindi anche da noi per dire ci vediamo nel pomeriggio si diceva : A raedarse dopo poenta ! “ La parte (la polenta) per il tutto ossia il pranzo o la cena. Senza saperlo avevano anche loro fatto una famosa figura della retorica:

A questo punto però il caliero veniva messo ancora tutto impastato di farina sul pavimento a raffreddarsi.

Era il momento tanto atteso dai ragazzini si poteva finalmente staccare con una forchetta le croste della polenta dal fondo della caliera di rame e mangiarle come fosse una prelibatezza. Le croste erano assolutamente appannaggio dei ragazzi e ragazzini. Facendo attenzione a non scottarsi e a non litigare perché anche qui c’era sempre quello che ti passava davanti. Sarà stata la fame, sarà stata l’età, saranno stati i chilometri al giorno che ogni ragazzo faceva per andare a scuola, ma le croste del caliero erano sempre buonissime.

Raccontano che la provincia più povera del Veneto fosse quella di Vicenza ed allora nel dopo guerra si decise di ospitare le caserme dei soldati americani proprio a Vicenza.

Si racconta poi che un soldato americano che faseva amore ad una bella vicentina e quindi frequentava la sua casa vedendo la scena della cottura della polenta esclamò : Good” e volle anche lui assaggiare le croste del caliero. Sarà stata la fame, sarà stata l’atmosfera gioiosa ma anche per lui le croste del caliero erano buonissime.

Tornato in patria notò che gli americani divoravano tantissimo il pop corn ma non conoscevano le croste del caliero. Si ricordò allora di quello che aveva mangiato nel Veneto e si inventò, si fa per dire, un nuovo prodotto: le croste del caliero in sacchetto. Negli Stati Uniti sperimentò la produzione industriale di tale prodotto non ci riuscì vendette la macchina ad un australiano e poi ad un giro di società di tutti i paesi… fatto sta che ad un certo punto via importazione negli anni 90 il prodotto fu commercializzato in Italia con il nome di ” Fonzie” in altri paesi con altri nomi. Oggi le chiamano invece tortillas come se fossero un’invenzione messicana. Si tratta sempre e comunque della croste del caliero e dispiace che delle provincie esperte in esportazione come quella di Padova o di Vicenza si siano fatte sfuggire il business bastava pensarci un attimo di più. A volte il tesoro è nascosto sotto le coste del caliero.