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Montura e Mafia

Montura e mafia (in senso buono!) due termini che ho riscoperto andando ai miei ricordi d’infanzia.

Un tempo la Messa grande della domenica era chiamata Messa ultima, quella delle 11,00 per intenderci, celebrata in particolare per gli uomini e i giovanotti che a casa avevano stalle da rigovernare e mucche da mungere fin dal primo mattino. Terminati questi lavori strettamente necessari (e non altri, altrimenti si faceva peccato contro il precetto della domenica) ecco che potevano finalmente lavarsi nella capace tinozza vicino al pozzo, farsi la barba col rasoio a mano e rivestirsi con l’abito della festa che sapeva di naftalina.

Messa prima era invece quella mattutina delle sei o delle sette, orario studiato apposta per le mamme e le nonne che dovevano poi correre a casa in gran fretta per preparare il pranzo con la pasta fatta a mano, il bollito, i fegatini e tutto il resto, unico pasto della settimana, in verità, degno di questo nome. Il cappellano, di solito, celebrava la Messa del fanciullo, quella intermedia delle nove, per i bambini che dovevano andare in Comunione, i ragazzetti delle scuole e le signorine di ogni età rigorosamente vestite in gran decoro con le maniche delle camicette abbottonate fino ai polsi, le calze lunghe anche d’estate ed il velo di pizzo in testa per non parere troppo civettuole.

Quando si dice i talebani!

Di Messe vespertine o prefestive neanche a parlarne e tutte erano recitate rigorosamente in latino, con il prete che volgeva le spalle all’assemblea dei fedeli, il digiuno per ricevere la Comunione partiva dalla mezzanotte del giorno prima e nelle occasioni importanti, come per la festa del santo Patrono, la Messa solenne era cantata e officiata “in terzo”, con la presenza cioè di tre preti.

Tutta questa lunga premessa per arrivare al punto del nostro primo vocabolo: per questa ricorrenza si diceva che gli officianti erano vestiti “in gran montura” cioè con i paramenti migliori, quelli ricamati d’oro, davanti all’altare inondato di fiori. Anche gli uomini più anziani del paese non erano da meno e sfoggiavano delle lunghe tuniche bianche con le mantelline rosse sulle spalle, pronti a mettersi in fila per la processione, la gente li chiamava “i cappati” appunto per le cappe che portavano. Infine veniva la banda con gli ottoni luccicanti ed i carabinieri col pennacchio rosso in testa, anch’essi in gran montura, naturalmente.

Così mia madre adoperava il termine “vestito in montura” anche fuori dal contesto testé descritto, per significare una persona agghindata di tutto punto, uomo o donna che fosse, magari con tanto di guanti, bastone e cappello. Quanto all’uso di tale espressione esso deriva dall’ambito militare ed era sinonimo di divisa. Ancora nel ‘700 negli eserciti della Serenissima oltre alla paga i soldati ricevevano una montura, cioè una uniforme cònsona al proprio rango e al proprio corpo di appartenenza, sia che fosse “de tera o de mar”, assieme ad un’altra montura più piccola che si riferiva a tutti quegli accessori personali necessari alla vita quotidiana, rinnovati ogni tre anni.

E qui arriviamo al secondo punto dei nostri due vocaboli in questione, quello in uso presso alcune famiglie con il detto: “far la mafia” ma in senso buono.

“Vardeo ciò! El xé tuto impomatà pa ‘ndare daea morosa, el se ga messo parfin ea brillantina Linetti e el fa ea mafia coe so bèe scarpe nove!”.

Come avete ben capito il vocabolo è sì mutuato dalla mafia siciliana, ma senza il connotato di malvagità che ha assunto in seguito, si voleva semplicemente far notare che il giovanotto amava farsi bello per un giorno e pavoneggiarsi con qualcosa che altri non avevano o non potevano permettersi. E ne aveva ben donde, benedetto ragazzo, talmente pochi erano in un anno i momenti dell’acquisto di un nuovo capo di vestiario! Di solito il cappotto usato veniva “rivoltato” e gli abiti, scarpe comprese, passavano tranquillamente dal figlio più grande a quello più piccolo senza batter ciglio, anche quando la misura non era ancora proprio quella giusta. Insomma, per il nostro “mafioso” che faceva un po’ il bulletto con gli amici si trattava solo di un tocco gratificante di ingenua adulazione senza secondi fini, ben lontano dal significato malavitoso e violento che oggi tale atteggiamento purtroppo si porta dietro.