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Angelo Beolco “Pavano doc” detto Ruzante

Si era autodefinito “Ruzante” dal verbo “ruzare”: in dialetto veneto si dice di uno che “va sempre de ongo” che straparla in continuazione, che ruza ruza come un temporale in arrivo, un giocherellone insomma, che non sta mai zitto ed è con questo soprannome, coniato da lui stesso, che il Beolco si è auto-tramandato ai posteri. Figlio naturale del medico dottor Francesco Beolco e di una serva proveniente da Pernumia, scherzando sulla sua nascita egli si diceva figlio non di do-tori (due-torri) ma di tre-torri, così come esse appaiono sullo stemma araldico del Comune di Pernumia.

Angelo Beolco nasce dunque a Padova sul finire del ‘500, in un bel palazzo all’inizio dell’attuale via Roma, di fronte alla chiesa di S. Daniele, e subito rivela la sua natura di “ribelle di strada”, senza remore e senza scrupoli nel denunciare apertamente vizi e ipocrisie del suo tempo.

Meglio di chiunque altro lo definì Dario Fo nel suo discorso pubblico che tenne alla presenza del re di Svezia in occasione del conferimento del Nobel per la Letteratura: ”Uno straordinario teatrante della mia terra, poco conosciuto… anche in Italia. Ma che è senz’altro il più grande autore di teatro che l’Europa abbia avuto nel Rinascimento prima ancora dell’avvento di Shakespeare. Sto parlando di Ruzzante Beolco, il mio più grande maestro insieme a Molière: entrambi attori-autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del loro tempo. Disprezzati soprattutto perché portavano in scena il quotidiano, la gioia e la disperazione della gente comune, l’ipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia».

Basta e ne avanza per dire che Ruzante, a Padova, si meriterebbe ben altro lustro e ben altra considerazione. Tanto più che della sua città egli ebbe a tessere un elogio sperticato in una delle sue opere più citate,”La Betìa”, commedia in dialetto “pavano” in cinque atti, andata in scena nel primo teatro stabile d’Europa, quella Loggia Cornaro che ancor oggi possiamo ammirare dietro al Santo, fatta costruire apposta dal suo grande amico e protettore Alvise. Amico a tal punto che il nostro Angelo, si racconta in un aneddoto, poteva bellamente entrare quando voleva nelle stalle di palazzo Cornaro, scegliersi il miglior cavallo che gli piacesse (la Ferrari di un tempo) e galoppare poi in assoluta libertà verso la sua amata Pernumia…

Loggia Cornaro in via Cesarotti, a Padova

Dell’elogio su Padova ne traduco solo alcuni brani perché il dialetto pavano del ‘500 è un po’ duro da capire, anche per un dialettofono come me.

Mi, com a ve dighe, a so bon pavan: io, come vi dico, sono un buon Padovano. O Gesù Dio! Essere Padovano è pur bella cosa. Ma dov’è la miglior aria? Dov’è il miglior pan? Dov’è il miglior vin? Dov’è, diversamente, il miglior terreno di monte e di pianura? Dov’è la più bella gente, ragazzi e ragazze, giovani e anziani di ogni età? Gente contadina ospitale che se ha un pane lo divide a metà. Dov’è una città più bella e più forte, con tante belle chiese come quella del Santo, tanti bei palazzi, piazze, fiumi, e portici per ripararsi dalla pioggia, e letterati e scienziati che vengono ad imparare da tutto il mondo?… Quando parlo di te, o Padova, mi si riempie il cuore di dolcezza…”

(Dal prologo della “Betìa” Atto I)

Davvero un panegirico stupendo che meriterebbe di essere scolpito sul marmo ed essere conosciuto da tutti, Padovani e non.

(Ho mandato a tal proposito una mail all’assessore alla Cultura Andrea Colasio, ma senza risposta. Mandatela anche voi! andreacolasio@gmail.com)

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