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Diego Valeri, poeta dimenticato

In questo mese di novembre muore nel 1976 il nostro poeta piovese Diego Valeri, esattamente il 27 di novembre, lasciato ormai nell’oblio del tempo, ed è per questo che voglio ricordarlo.

Perdonate il mio divagare nel passato ma conservo ancora vivo il ricordo del mio vecchio, logoro sussidiario del lontano 1950. Era come una piccola enciclopedia: trattava di storia, di scienze, di matematica, di geografia e naturalmente di italiano. Quell’italiano considerato da noi dialettofoni veneti alla stregua di una lingua straniera. Ecco, è proprio in questa sezione che molte delle filastrocche e delle poesie dedicate ai bambini, tratte dalla silloge “Il Campanellino”, recavano in fondo al testo il suo nome: Diego Valeri, che solo più tardi ho realizzato essere mio concittadino.

Era nato, infatti, a Piove di Sacco il 25 gennaio del 1887 ultimo di tre fratelli, aveva frequentato il liceo classico Tito Livio di Padova, laureandosi poi in Lettere presso l’università all’età di soli ventun anni.

Incominciò così la sua carriera di insegnante di italiano e latino nelle scuole di mezza Italia, oltre che a scrivere racconti, filastrocche e poesie per bambini, in buona parte dedicate alle sue due figlie amatissime, Giovanna e Marina.

Monza, Fermo, Pinerolo, Ravenna, Voghera, Rovigo, Cremona, Vicenza, Venezia, furono le numerose tappe che dovette affrontare nei lunghi anni di insegnamento, fino a Lecce presso una università privata, per approdare poi finalmente alla sua amata Padova dove, nel 1939, divenne ordinario di lingua e letteratura francese presso l’Università.

Quando il 25 luglio del 1943 Mussolini viene arrestato dal re e si respira finalmente aria di libertà il nostro Valeri è chiamato a Venezia nientemeno che alla direzione del Gazzettino. Purtroppo l’esperienza dura poco, solo 45 giorni, durante i quali però trasforma il quotidiano ligio al regime in un giornale libero, dopo vent’anni di serrata propaganda fascista.

Poi eccoti il famigerato armistizio dell’8 settembre del 1943, con l’Italia divisa in due, caduta nel baratro della guerra civile. Valeri, per la sua attività di cronista libero, viene condannato dai nazisti e dai repubblichini a trent’anni di carcere ed è costretto all’esilio. Si rifugia in Svizzera, destinato dalle autorità elvetiche al campo di Murren, nello Jungfrau, a 2500 metri di altitudine, con lui sono esuli Amintore fanfani, Dino e Nello Risi, Giorgio Strehler.

Le lettere e le poesie di quel periodo, struggenti e cariche di pathos, ci descrivono la triste realtà del momento, anche se aperta ad un flebile soffio di speranza. Guida e conforto anche per noi, di questi tempi terribili e cruenti.

Campo di esilio

Percossi sradicati alberi siamo,
ritti ma spenti, e questa avara terra
che ci porta non è la nostra terra...

Come morti aspettiamo che la morte
passi; e l’un l’altro ci guardiamo, strani,
con occhi d’avvizzite foglie. E un tratto
trasaliamo stupiti, se alla cima 
di un secco ramo un germoglio si schiuda,
e la corteccia senta urgere al labbro 
delle vecchie ferite un sangue vivo;
tra le nubi scorrendo un dolce vento
di primavere nostre. 


Diego Valeri, non solo grande poeta crepuscolare alla maniera di Pascoli e Gozzano, ma anche nobile figura di maestro e di patriota, in stancabile promotore di cultura e di civiltà.

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