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Quarantena

Quarantena di riflessione e di studio

Nel clima di isolamento che stiamo vivendo in questi giorni per via del “Coronavirus” sono in tanti quelli che fanno riferimento ai loro studi giovanili sulla peste manzoniana raccontata nei Promessi Sposi. Un morbo ben più terribile dell’attuale, trasmesso dalle pulci ai topi e da questi all’uomo, con un tasso di mortalità enorme che dimezzava intere città e spopolava numerose regioni, d’Italia e d’Europa. In quegli anni terribili del 1630 anche il Veneto ne fu duramente colpito, basti solo pensare che in città come Verona, che allora contava 54 mila abitanti, i morti furono ben 33 mila, 46 mila a Venezia, 19 mila a Padova che di abitanti ne contava 32 mila in tutto. E a proposito di Padova pochi sanno che nella nostra città esiste ancora un monumento che ricorda quei fatti dolorosi ed è il grande arco Vallaresso che si trova in piazza Duomo, eretto in onore del capitano (prefetto) veneziano Alvise Vallaresso che tanto si prodigò a favore degli appestati.

Tornando al Manzoni non potevo non esortarvi, in questa occasione dove il tempo, se vogliamo, lo abbiamo, a rileggere la famosa pagina della “madre di Cecilia” che ai miei tempi si imparava a memoria come fosse una poesia, tanto la prosa è curata nel suo periodare, così come la scelta dei vocaboli e del linguaggio, nella descrizione di questo quadro desolante della raccolta dei morti casa per casa da parte dei monatti. Ancora oggi, quando si legge questo brano nelle scuole, si fa un silenzio assoluto, quasi irreale e alla fine non pochi studenti si ritrovano con il groppo alla gola per la commozione.

Ed è per questo che mi sono permesso di trascriverlo integralmente per facilitarne la lettura.

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La madre di Cecilia

(Brano tratto da I promessi Sposi, cap. XXXIV di Alessandro Manzoni)

«Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa che brilla nel sangue lombardo.
La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo dintorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affacendò a far un po di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri». Poi, voltatasi di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola». Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato».

(Brano tratto da I promessi Sposi, cap. XXXIV di Alessandro Manzoni)
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