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Le anfore parlano

Se ci pensate la storia di un’anfora è come la pagina di un libro: si lascia trovare, leggere, interpretare e ci fa pure sognare, proprio come le storie di un romanzo.

A Padova si continua a scoprirne a decine e a centinaia, sepolte sottoterra a diversi livelli, le ultime fino a soli 70 cm. di profondità, attorno al perimetro dell’arena romana. Si tratta in questo caso di “olle vinarie”, com’era facilmente intuibile, viste le numerose “tabernae” che pullulavano attorno allo stadio dei gladiatori. A volte si ritrovano durante i lavori di scavo nel sedime delle “stratae” per la posa in opera delle tubazioni, come in via Altinate, spesso accanto alle “stele” funerarie per l’incinerazione del defunto, talvolta rivestono semplicemente funzioni di drenaggio e di bonifica dei suoli umidi per le fondamenta delle “ville rustiche” come è successo a Roncaglia.

Anfora romana utilizzata per trasportare allume per la tintura della lana, dalle isole Lipari

Alcuni scavi recenti nei pressi di Riviera Tiso da Camposampiero hanno portato al recupero di un’ottantina di anfore distribuite in tre apprestamenti di “drenaggio” poco lontani tra loro, le cui caratteristiche, però, si sono rivelate immediatamente diverse da quelle più comunemente attestate come vinarie o olearie, con dimensioni piuttosto grandi (130 cm di altezza in media) e caratterizzate da un impasto molto grezzo, ricco di inclusi di ossidiana di pomice. Ebbene, sapete da dove provenivano e cosa contenevano? Venivano nientemeno che dall’isola vulcanica di Lipari, in Sicilia, ed erano destinate al trasporto dell’allume di potassio, un sale minerale assai ricercato per fissare la tintura della lana. E di centri per la lavorazione della lana a Padova ce n’erano parecchi, eccome, come famose erano le sue pecore euganee (“Euganeae capellae”) dal cui vello si producevano robusti tappeti ed ancor più robuste tuniche (gausapa quadrata) se è vero che il poeta Marziale diceva che le tuniche patavine si potevano tagliare solo con una sega! I bolli con cui sono marchiate queste anfore le datano dell’età di Augusto (I° secolo dopo Cristo) e in una dozzina di esemplari sono presenti pure delle iscrizioni (tituli picti). E la cosa non deve meravigliare in quanto molte di esse, specie ispaniche, vengono ritrovate con tanto di etichetta/ricetta per la preparazione e la conservazione della salsa di pesce, il famoso “garum” e con su scritto di fare attenzione al trasporto “cave garum”, maneggiare con cura! Insomma ogni anfora, se ben studiata, ha la sua carta d’identità e ci racconta la sua storia, la sua data di nascita, la provenienza, il tragitto e l’uso che se ne è fatto. La più antica e famosa classificazione di questi preziosi cimeli antichi la dobbiamo ad un archeologo tedesco, il prof. Henry Dressel vissuto per molti anni a Roma che nel 1899 studiò i marchi delle anfore del Monte Testaccio

 Inizia dalle prime anfore cananee (Libano) a forma di trottola apparse nel Mediterraneo fino ad arrivare a quelle greche e romane di età repubblicana dove il collo man mano si allunga e passa dai 15 cm. ai 40 cm. E poi via, via le etrusche, le italiche, quelle di età imperiale, le africane tunisine e libiche, le iberiche, le galliche, le istriane. Tutto un mondo vastissimo ed affascinante da scoprire, con mille storie da raccontare nei ritrovamenti sottoterra e in fondo al mare. Vicino ad Aquileia, tanto per fare un esempio, esiste ancora il toponimo medievale “Canale Anfora” per indicare la grande quantità di anfore ritrovate nel porto-canale fatto costruire in epoca romana, lungo ben sei km., per l’attracco delle “navi onerarie”. A proposito, vi ho già detto che a Padova, al bar Gancino davanti al Duomo, scendendo per una scala interna in vetro per raggiungere la saletta del “basolato romano” c’è in bella mostra una magnifica anfora libica. Provare per credere. Ma com’è fatta un’anfora? Molto semplice, si compone di sei parti: orlo, collo, due anse (manici), un corpo (pancia) e un piede. E per per tapparla? Si usavano dei dischi di legno o di sughero, come si fa per le bottiglie, o più semplicemente si conficcava nell’imboccatura una bella pigna verde che, oltre che a servire da tappo dava anche aroma al contenuto. Oggi, dopo secoli di uso delle botti di legno per la conservazione del vino (introdotte nel Medio Evo da usanze Gallo-celtiche) è curioso scoprire come qualche produttore, in Italia e in Spagna, voglia tornare a sperimentare questo contenitore particolare, proprio come ai bei tempi antichi. Vuoi mettere il fascino di una mescita in una cantina piena di orci di terracotta?